La memoria delle emozioni 3°

Mar 7, 2014 | Musica

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La memoria delle emozioni 3°

 

La tragedia

Nel periodo classico, la prima grande novità fu la nascita della tragedia. Della tragedia abbiamo notizie dall’opera di Aristotele, nella quale si afferma che nacque nel Peloponneso, dal ditirambo.

 

Il coro

La disposizione circolare del coro greco e l’organizzazione dei testi dei ditirambi, anche dal punto di vista metrico, fu introdotta da Arione di Metimna. Successivamente, dal coro si distaccò un corifeo (capo del coro) che raccontava le gesta del dio Dioniso e di altri dei.

 

Il racconto del corifeo si alternava agli interventi del coro. Il salto verso la rappresentazione, avvenne con il passaggio dalla struttura lirica (quando il corifeo raccontava una storia all’uditorio) a quella drammatica (quando il corifeo diventò attore, impersonificando Dioniso o un altro dio). Secondo la tradizione, questa trasformazione fu operata da Tespi (semileggendario poeta e drammaturgo greco antico; non si conosce con sicurezza l’anno della sua nascita, Orazio nell’Arte Poetica la fissò nel 566 a.C.).

 

La struttura della tragedia

Dal punto di vista musicale, nel periodo classico, il nomos viene sostituito gradualmente da scale. La differenza tra nomos e modo sta nel fatto che il nomos è una melodia prestabilita in una tonalità, mentre il modo ci consente di inventare nuove melodie pur battendo sulla stessa tonalità. L’esecutore che utilizza il nomos è vincolato ad usare una sola melodia, mentre colui che utilizza il modo, cioè la scala, può inventare, mantenendo il tono, l’accento espressivo del nomos.

 

I principali modi, dorico, frigio e lidio, su cui ci soffermeremo nei paragrafi successivi, vengono chiamati con i nomi dei nomoi corrispondenti proprio perché le scale di quei nomoi sono le stesse dei modi, con la differenza che il nomos è solo una melodia, mentre il modo è una scala che consente all’esecutore di inventare, quindi c’è una fioritura immaginativa.

 

Com’è avvenuto di norma nella storia della musica, le innovazioni tecniche, cioè i sistemi musicali, precedono la loro teorizzazione. I Greci utilizzavano i sistemi musicali in maniera pratica.

 

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Pisistrato

 

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Ai tempi di Pisistrato (561 a.C. – 527 a.C.) e ancor di più di Pericle (495 a.C. – 429 a.C.) il sorgere e lo svilupparsi della tragedia nazionale rappresentarono quindi l’epoca del maggior fiorire della musica greca.

 

L’importanza dei cori era massima in Eschilo, minore in Sofocle e in Euripide. Che i cori venissero cantati è ormai cosa certa, e sembra pure sicuro che la musica fosse scritta dai poeti tragici o almeno da loro designata, togliendola da canzoni popolari note, che si adattavano alla situazione e ai sentimenti espressi nelle loro tragedie. I cori consistevano in tre parti: strofa, antistrofa, ed epodo; le prime due erano cantate dai cori separati che si univano nell’epodo.

 

Benchè la musica greca non conoscesse la melodia nel senso moderno della parola non è ammissibile che la musica dei cori fosse semplicemente una recitazione cadenzata, ma deve essersi avvicinata per il carattere della sua poesia esprimente considerazioni generali e sentimenti astratti, al genere melodico lirico; sembra poi che tanto i cori quanto la parte recitata fossero accompagnati da strumenti, probabilmente flauti e cetre.

 

Alcune opere artistiche ce ne danno ampia testimonianza, come la bellissima suonatrice di flauto oggi al Museo Nazionale di Roma o nelle decorazioni del vaso di Duride (ceramografo attivo ad Atene tra il 500 e il 475 a.C.), oggi al Museo Reale di Berlino.

 

 

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Fig. 8: Suonatrice di flauto – Museo Nazionale di Roma.

 

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In entrambe le due opere i musicanti hanno in mano flauti e cetre.

Con la decadenza delle repubbliche greche cominciò pure l’epoca di decadenza della musica. La voce dei saggi che piangevano i tempi passati, era soffocata dalla folla che donava corone d’alloro al citaredo Frimi, al cantante Mosco (II sec a.C), all’etera Taide (IV sec a.C.), e innalzava un tempio alla flautista Lamia.

 

Poi sotto i Macedoni l’arte musicale perse ogni importanza fra gli uomini di cultura, e divenne un semplice sollazzo della plebe nei vari festeggiamenti e nelle chiassose baldorie.

 

Restarono solo qualche appassionato dotto che seguitò a meditare sulle questioni teoriche musicali, e rivisitò il passato, come il già menzionato Aristosseno (detto anche l’Armonico, 350 a.C.) che scrisse e ci lasciò tre libri di Elementi di armonia, in cui, a differenza delle teorie pitagoriche, venne istituito a giudice supremo l’udito e non le leggi matematiche. Analogamente un successivo frammento di Alipio (200 a.C.) sembra contenere un sistema di notazione musicale con lettere. Un’altra testimonianza è l’opera di Plutarco (46 d.C. – 125 d.C.), di cui si ricorda il De musica, del 77, opera apocrifa. Una testimonianza successiva è attribuibile ad Alipio: originario di Alessandria, scrisse in greco di musica intorno al 360.

 

Delle sue opere, è rimasto solo un piccolo frammento, sotto il titolo di Isagoghe musikè (Εισαγωγη Μουσικη, o Introduzione alla Musica). L’Isagoghe venne stampata con le tavole di notazione nell’Antiquae Musicae Scriptores di Marcus Meibomius (in-quarto, Amsterdam 1652). Meibomius fece uso del manoscritto appartenente a Joseph Scaliger, edito da Mersius nel 1616, e di altri, ancora esistenti all’epoca in Inghilterra e in Italia. Karl von Jan ne pubblicò un’autorevole edizione in Musici Scriptores Graeci, (1895 – 1899). Il lavoro di Alipio è la più importante fonte della attuale conoscenza della notazione musicale dei greci, tra cui un completo resoconto del sistema greco di scale, trasposizioni e notazioni musicali. L’epoca in cui visse è incerta, ma si ritiene che appartenga alla fine del IV secolo.

 

Alla Grecia era pure riservata la gloria di essere la prima a occuparsi di estetica musicale e a studiare la sua influenza sull’animo, sull’educazione e sullo sviluppo del carattere. Platone (428 a. C. – 347 a.C.) ascrisse alla musica una potenza morale: essa deve influire sul carattere, informarlo al bene e ispirare odio e ribrezzo per il male. Aristotele (384 a. c. – 322 a.C.), d’accordo in genere con tali massime, riconobbe altresì nella musica lo scopo di dilettare (negato però da Platone) e, dilettando, di nobilitare l’animo.

 

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Timoteo di Mileto (446 a.C. – 357 a. C.) fu il protagonista della rivoluzione musicale del V secolo a.C., accompagnata dalla costruzione della lira con non più di sette o undici corde, per consentire l’uso delle alterazioni le quali generano maggiori sfumature e carica espressiva.

 

I filosofi e gli intellettuali del tempo, dinanzi alla rivoluzione del V-IV secolo a.C., si posero in maniera differenziata, come desumibile dalla riflessioni dei già menzionati Platone e Aristotele, entrambi filosofi del periodo classico. Trovo interessante spendere alcune parole a tal proposito.

 

La dottrina dell’ethos e l’educazione

A Pitagora si attribuì l’affermazione della relazione tra la musica e l’animo umano, concetto ripreso e sviluppato da tutta la filosofia greca dei secoli seguenti e che assunse i caratteri della dottrina dell’ethos. Essa indicò le relazioni esistenti tra alcuni aspetti del linguaggio musicale e determinati stati d’animo.

 

Le differenti potenzialità emotive della musica riguardavano principalmente le armonie, cioè le melodie, ma potevano anche riferirsi ai ritmi e agli strumenti. Ogni tipo di musica imitava un certo carattere; questa imitazione avveniva in vari modi: per esempio, il modo dorico veniva considerato capace di produrre un ethos positivo e pacato, mentre il modo frigio era legato ad un ethos soggettivo e passionale.

 

Ogni modo doveva produrre un ben determinato effetto sull’animo, positivo o negativo che fosse; inoltre ogni modo non avrebbe imitato soltanto uno stato d’animo, ma anche i costumi del paese da cui traeva origine ed anche il tipo di regime politico, democratico, oligarchico o tirannico. L’insieme delle dottrine, anche diverse, presenti nella scuola pitagorica trovarono una loro sistemazione ed una certa coerenza nella filosofia di Platone.

 

 

 

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Platone

 

Platone raccolse una precisa eredità di pensiero che consisteva nel ritenere che il cosmo fosse organizzato da rapporti numerici che sono essi stessi armonia musicale, la cosiddetta armonia delle sfere (armonia pitagorica). Ne La Repubblica, la posizione di Platone, nei confronti della musica, era estremamente complessa: da un lato c’era una condanna filosofica dell’arte in generale, perché tutta l’arte era imitazione della realtà e la realtà, a sua volta, era il riflesso del mondo delle idee. L’arte, quindi, essendo imitazione di un’imitazione, era lontana di due gradi dalla verità; dall’altro c’era l’armonia delle sfere, quella di origine pitagorica, che era riflesso della perfezione del cosmo, ma che non era udibile dall’uomo.

 

Dunque, la musica in quanto fonte di piacere, sotto il profilo pratico, era oggetto di condanna o, più raramente, poteva essere accettata, ma con cautela e con molte riserve. Va aggiunto che la musica poteva anche essere una scienza e, in quanto tale, oggetto non più dei sensi ma della ragione. La musica, allora, poteva avvicinarsi alla filosofia sino ad identificarsi con essa, come la più alta forma di sapienza (sophia). Si ritrovava in molti dialoghi di Platone l’identificazione del comporre musica con il filosofare.

 

Ad esempio, nel mito delle cicale nel Fedro appariva chiara la posizione privilegiata della musica rispetto alle altre Muse, privilegio che la rendeva simile alla filosofia, nel senso che filosofare significava “rendere onore alla musica”. In questo mito la musica appariva come un dono divino di cui l’uomo poteva appropriarsi, ma solo ad un certo livello, cioè quando raggiungeva la sophia. Nell’educazione, Platone proponeva la ginnastica e la musica, nel significato di canto e di suono della lira, per l’anima. Platone si trovava di fronte alle profonde innovazioni presentate dalla pratica musicale del suo tempo, innovazioni che nel loro insieme rappresentavano la rivoluzione musicale del V secolo.

 

Di fronte ad essa il filosofo manifestava la sua più profonda avversione e ostilità, ancorandosi alla più antica e salda tradizione musicale e poetica. Questa posizione conservatrice non aveva origine solamente in un suo atteggiamento negativo di fronte ai musicisti e alla nuova musica del suo tempo, ma trovava una spiegazione anche nella sua filosofia della musica.

 

 

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Aristotele

 

Aristotele, invece, ebbe una visione più aperta. Diede una giustificazione antropologica dell’arte, disciplina essenziale all’uomo, che la scagionava, anche se negativa. Aristotele riprese il concetto pitagorico di catarsi, ma lo modificò, osservando che il meccanismo della purificazione avveniva attraverso una liberazione delle passioni che venivano imitate dal musicista: perciò non vi erano armonie o musiche dannose in assoluto dal punto di vista etico; la musica era una medicina per l’animo proprio in quanto poteva imitare tutte le passioni o emozioni che ci tormentavano e di cui eravamo affetti e dalle quali volevamo purificarci; tale liberazione avveniva proprio potendo osservare la loro imitazione attraverso l’arte. Aristotele sottolineava come Platone confondesse la realtà con l’imitazione della realtà. Egli affermava Platone confondesse colui che zoppicava come colui che imitava uno zoppo.

 

Queste erano due cose diverse, perché l’imitazione della realtà che avveniva nell’arte non era la realtà in se, ma aveva una funzione catartica perché, dopo aver provocato nello spettatore una immedesimazione di sentimenti, alla fine, lo liberava da questi stessi sentimenti, quindi produceva una sorta di riscatto omeopatico (omeopatico, in quanto l’omeopatia rafforza un sintomo per poi scaricarlo). La musica aveva come fine il piacere e come tale rappresentava un ozio cioè qualcosa che si opponeva al lavoro e all’attività. In quanto occupazione per i momenti di svago, la musica veniva considerata da Aristotele come una disciplina “nobile e liberale”. L’arte e la musica erano imitazione e suscitavano sentimenti, perciò erano educative in quanto l’artista poteva scegliere più opportunamente la verità da imitare ed influire così sull’animo umano.

 

 

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Euripide

 

Nel periodo della Decadenza, con Euripide, il coro tragico, che sino a quel tempo era stato espressione lirica delle moltitudini, divenne individuale, e, con il sorgere e lo svilupparsi della commedia, degenerò e scomparve. La musica, nel periodo ellenistico-alessandrino, assunse un carattere prevalentemente cerebrale e le composizioni originali cedettero alla critica, alla polemica e alla teoria: ne sono chiare espressioni i Trattati di Aristosseno Tarantino (IV secolo a.C.).

 

Nel nostro prossimo appuntamento, tratteremo ancora dell’affascinante e coinvolgente percorso musicale compiuto dai Greci, soffermandoci sugli aspetti tecnici che hanno persino influenzato la storia della musica occidentale moderna.

 

Il sistema di notazione musicale

L’esistenza della notazione risale al IV secolo a.C., collocandosi nel periodo poc’anzi definito Arcaico. La scrittura musicale greca serviva solo ai musicisti professionisti per loro uso privato.

 

Tra i pochi reperti sopravvissuti, testimonianza nonché mezzi di ricostruzione della storia musicale dei Greci, ricordiamo:

Un frammento del primo stasimo della tragedia Oreste di Euripide, scritto su papiro; dalla collezione dell’arciduca Rénier. Notazione vocale.

Sempre dall’Oreste di Euripide: frammento di un coro (480 a.C. – 406 a.C.), Papyrun Wien G 2315. Notazione vocale.

Frammenti strumentali sempre dall’Oreste di Euripide, nel Papyrus Berlin 6870. Notazione strumentale.

 

Due inni delfici, in onore di Apollo, uno in notazione vocale, l’altro in notazione strumentale, entrambi incisi su pietra; scoperti nelle rovine del tesoro degli ateniesi a Delfi nel maggio del 1893 (Delphi inv. NR. 517,526,494,499).

Pianta di Tecmessa, Papyrus Berlin 6870. Notazione vocale.

Tre inni di Mesomede di Creta, dedicati al Sole, a Nemesi e alla musa Calliope, pubblicati da Vincenzo Galilei alla fine del ‘500.

 

 

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Aristofane

 

Aenaoi Nefelai, da Aristofane. Museo di Monaco di Baviera (Aristophane 275/277)

Epitaffio di Sicilo, (Seikilos figlio di Euterpe). Inciso su una colonnetta di pietra scoperta in Asia minore e pubblicata da Ramsay nel 1883. I segni musicali furono scoperti da Wessely nel 1891. Attualmente nel museo di Copenaghen (Inv NR. 14897). Notazione vocale.

Prima ode Pitica, da Pindaro. Fonte: Biblioteca del monastero di S. Salvatore, Messina.

Papyrus oxyrhynchus 2436 – Frammento di una monodia estratta forse dal Meleagos di Euripide.

Homero Hymnus (Omero?) Fonte: Benedetto Marcello, Estro poetico-harmonico (Venezia, 1724). “Parte di canto greco del Modo Hippolidio sopra un inno d’Omero a Cerere”.

Poema (Mor 1,11 f Migne 37,523) di Grigorios Nazianzenos – Fonte: Athanasius Kircher, Musurgia universalis (1650), “Schema Musicae Antiquae”. Biblioteca del monastero di S. Salvatore, Messina.

Papyrus Oslo A/B: Papiro di Oslo 1413 (Testo tragico). Pubblicato da Amundsen e Winnington-Ingram in Symbolae Osloensen (1955). Notazione vocale.

 

I Greci furono il primo popolo, per quello che ci è dato sapere, che abbia sviluppato un preciso sistema di notazione musicale. Nell’ Introduzione alla musica di Alipio sono contenute le tavole illustrative di due sistemi: il primo, strumentale, detto krusis, utilizza le lettere dell’ alfabeto fenicio, poste in posizione normale, orizzontale e rovesciata, per indicare le note e le rispettive alterazioni; il secondo sistema, vocale, detto lexis, si avvale invece delle lettere dell’alfabeto ionico, in gruppi di tre, con analoga funzione, con l‘aggiunta di segni sussidiari per i suoni oltre l‘ottava che poteva essere compresa nelle ventiquattro lettere.

 

Il valore delle alterazioni cambia però secondo il genere, rendendo più complessa l’interpretazione. Al di sopra delle lettere dell’alfabeto ionico troviamo poi i segni di durata: infatti a partire dal IV secolo circa era divenuta sempre più frequente la dissociazione della durata della nota dal sistema metrico dei versi. Fu così necessaria un’ulteriore simbologia per indicare una lunga di due tempi (makrà dìchronos), = ; di tre tempi (makrà trìchronos) = .; di quattro tempi (makrà tetràchronos) = .; di cinque tempi (makrà pentàchronos) =

Va ancora specificato che noi siamo in grado, in questo modo, di stabilire con certezza la durata e la distanza delle note, ma rimane solo congetturale il valore assoluto fissato per la nota stessa.

 

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Fig.9: I segni dei due sistemi di notazione, vocale e strumentale, con lo schema delle note che si fanno corrispondere, per convenzione, a ciascuno di essi nel genere enarmonico (nel genere cromatico la seconda nota della triade è innalzata di un semitono, la terza di due). [da: La musica nella cultura Greca e Romana, Volume 1 – Giovanni Comotti].

 

La Ritmica

Nella Grecia antica, la musica era assolutamente inseparabile dalla poesia, soprattutto nel periodo più antico della sua storia. Nella poesia greca e in quella latina, la metrica era governata dalla successione, secondo schemi prefissati, di sillabe lunghe e brevi. Da questi schemi derivavano le alternanze fra tempi forti e deboli, cioè il ritmo.

 

La ritmica greca si estendeva all’area delle arti temporali, quindi la musica adottava gli stessi principi metrici della poesia. Fondamentale ed indivisibile della metrica greca era il tempo primo, misura della sillaba breve. La breve corrispondeva alla durata di una croma, mentre la lunga corrispondeva alla durata di due sillabe brevi, ossia di una semiminima. Il ritmo si produceva solo quando c’erano due o più note o sillabe, cioè più brevi e lunghe; esse si ordinavano in schemi ritmici chiamati piedi. Nella poesia, i piedi si raggruppavano in combinazioni varie a formare i versi, e i versi a formare le strofe.

Il canto

Verso la fine del periodo arcaico cominciò a svilupparsi una lirica monodica, affidata ad una voce sola ed eseguita in contesti conviviali. In alcune città come Sparta, invece, dove si sviluppò un forte senso civile e si diede importanza alla dimensione collettiva della vita sociale, nacque una produzione di musica corale, affidata ad eventi celebrativi pubblici sia religiosi che laici.

 

Forme della lirica corale furono: il peana in onore di Apollo, il ditirambo in onore di Dioniso, l’imeneo, canto di nozze, il threnos, canto funebre, il partenio, canto di fanciulle, gli inni in onore degli dei e degli uomini e gli epinici in onore dei vincitori dei giochi panellenici. Nella lirica corale si realizzò pienamente l’unione delle tre arti della Mousikè, perché alla poesia si aggiunse la danza (il coro si muoveva coreograficamente durante l’esecuzione dei canti corali).

 

Il ritmo di questi canti era lo stesso della poesia. Il coro greco cantava all’unisono, utilizzando il procedimento dell’eterofonia: veniva cantata un’unica melodia, ma ad altezze diverse. Massimi poeti e musicisti dei canti corali furono Stesicoro e Pindaro. Siamo tra il periodo arcaico e classico.

 

 

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Fig. 10: Cratere a colonnette attico attribuito a un Manierista non identificato, 480 a. C. circa. Basilea, Antikenmuseum und Sammlung Ludwig BS 415 – Coro di giovani con maschere dinanzi ad altare con immagine di Dioniso.

 

Nella storia della cultura occidentale, l’antichità greca ha rappresentato un concreto modello di classicità, specialmente per l’architettura, la scultura, la filosofia e la letteratura. Diverso è stato per la musica, arte altrettanto importante e praticata nel mondo classico, della quale, a differenza delle discipline precedentemente dette, ci sono rimasti solo pochi frammenti e di difficile interpretazione. L’elemento di continuità tra il mondo della civiltà musicale ellenica e quella dell’Occidente europeo è costituito principalmente dal sistema teorico greco, che fu assorbito dai romani e da essi fu trasmesso al Medioevo cristiano.

 

Il sistema diatonico, con le scale di sette suoni e gli intervalli di tono e di semitono, che sono tuttora alla base del nostro linguaggio musicale e della nostra teoria, è l’erede e il continuatore del sistema musicale greco. Altri aspetti comuni alla musica greca e ai canti della liturgia cristiana dei primi secoli dell’era volgare furono il carattere rigorosamente monodico della musica e la sua stretta unione con le parole del testo.

 

La più semplice nozione armonica della musica greca, nonché forse dell’intera musica occidentale antica, è il tetracordo, un insieme di quattro suoni comprendenti due toni e un semitono, corrispondenti a quelli della lira.

 

Si presenta in questo modo la struttura del primo genere musicale praticato dai Greci: quello diatonico. Col passare del tempo, però, la figura del tetracordo subì alcune trasformazioni, in risposta alle nuove esigenze estetiche e all’evoluzione del pensiero e della sensibilità musicale greca, che esigevano un cambio di genere.

 

Nacque allora dapprima il genere cromatico ed in seguito quello armonico. Il mutamento di genere consistette fondamentalmente nella variazione della disposizione degli intervalli all’interno del tetracordo che chiamiamo, a seconda del contesto storico-musicale in cui lo troviamo, diatonico, cromatico o enarmonico. Generalmente i generi si presentano dal grave all’acuto con questa successione intervallare: il diatonico procede per semitono-tono-tono; il cromatico è triemitonio (tre semitoni) semitono-semitono-semitono; l’enarmonico presenta la successione quarto di tono-quarto di tono-ditono.

 

Nel genere cromatico ed enarmonico si crea il “pycnon“, così definito da Aristosseno (il “nostro” ormai noto compositore e filosofo greco, IV a.C.): “…Si chiami “pycnon” (stretto, compatto) la composizione di due intervalli, la somma dei quali forma un intervallo più piccolo del rimanente intervallo di quarta… (Aristosseno “Elementi Armonici” I,22). I due intervalli che compongono il “pycnon” si chiamano “diesis”, che possono essere enarmonici o cromatici a seconda dei generi in cui vengono applicati.

 

Mi permetto una breve digressione.

Una scala diatonica (o naturale) deve il suo nome alla sua composizione di toni e semitoni: per la precisione, è una scala musicale formata da sette delle dodici note che compongono la scala cromatica, susseguentisi secondo una precisa successione di sette intervalli, cinque toni (intervalli tonale tra due semitoni) e due semitoni (intervalli tonali più piccoli che possono intercorrere tra due toni).

 

Una scala cromatica è una scala musicale composta da tutti e dodici i semitoni del sistema temperato, in cui il semitono è considerato l’intervallo minimo tra due note. Il termine “cromatico” deriva dal greco chroma (colore): in genere le note cromatiche sono intese come armonicamente poco significanti e utilizzate per dare “colore” alle scale diatoniche. A differenza delle scale diatoniche, composte da toni e semitoni, la scala cromatica o semitonata è composta da soli semitoni cromatici (l’intervallo che passa fra due suoni consecutivi dello stesso nome, di cui uno alterato, ad esempio Reb e Re), è appunto da questo che la scala cromatica prende il suo nome.

 

Essa è formata da 12 suoni equidistanti fra loro (all’interno di un’ottava): è per questo perfettamente simmetrica ed ha una unica trasposizione possibile, rimane cioè identica a sé stessa a prescindere dalla nota di partenza. Tale scala non è dunque associabile ad alcun modo musicale o tonalità specifiche.

Benché nella pratica i musicisti ed i compositori siano spesso poco congruenti, i teorici della musica hanno suddiviso la notazione delle scale cromatiche in vari modi: scala cromatica ascendente, discendente, melodica e armonica.

 

La scelta tra due note omofone (ovvero scritte diversamente ma con suono uguale) è subordinata sia a precise regole armoniche (che sono trattate nello studio dell’armonia tradizionale), sia a principi di economia grafica.

 

Normalmente nelle scale ascendenti si usano i diesis, in quelle discendenti i bemolle. La scala cromatica armonica utilizza invece un insieme di note e alterazioni che rimane invariato sia scendendo che salendo, o variando di tonalità. La scala cromatica melodica, su cui vi sono discordanze di opinione, utilizza alterazioni differenti a seconda della tonalità (maggiore o minore) e a seconda del suo andamento discendente o ascendente.

 

Torniamo, dopo questa breve parentesi, alla scala diatonica, costituita secondo una precisa successione di sette intervalli, cinque toni due semitoni. Tale successione caratteristica non è univoca, ma può essere specificata in sette diverse combinazioni definite modi aventi la caratteristica che ognuna di queste può essere costruita a partire dalle altre, usando come prima nota (solitamente chiamata Tonica) una delle note intermedie delle altre. Il modo ed il tono costituiscono la tonalità, quel complesso di relazioni melodiche ed armoniche che formano la scala diatonica.

 

La successione caratteristica viene generalmente rappresentata nella sua applicazione al cosiddetto modo maggiore, costituito dalla seguente successione di intervalli:

T – T – s – T – T – T – s

dove T=tono e s=semitono. Tuttavia la successione caratteristica può essere rappresentata senza ambiguità da uno qualsiasi dei sette modi possibili, ad esempio considerando il modo minore si ha:

T – s – T – T – s – T – T

ove si può notare che questa successione può essere ottenuta da quella del modo maggiore partendo dalla sua sesta nota (sesto grado) (naturalmente riiniziando non appena la successione originale termina).

Sinteticamente si può dire che una scala di sette intervalli di cui cinque toni e due semitoni può essere definita diatonica solamente se i due semitoni si trovano ad inquadrare due toni, oppure (condizione assolutamente equivalente) se i due semitoni si trovano ad inquadrare tre toni.

Le due scale musicali indicate, scala maggiore e minore, sono le più note alla musica occidentale, tanto che su di esse sono formate le denominazioni delle note: la successione Do-Re-Mi-Fa-Sol-La-Si-Do (usata dalle lingue romanze) è infatti una scala maggiore (quella “di Do”), mentre la successione A-B-C-D-E-F-G-A (utilizzata in ambito anglosassone) è una scala minore (quella “di La”), le altre note della scala cromatica non hanno nomi propri ma utilizzano il nome delle altre note vicine accompagnato dagli aggettivi diesis (per note più alte di un semitono rispetto a quella di cui si prende il nome) oppure bemolle (per note più basse di un semitono).

 

Rispettano inoltre le successioni diatoniche i tasti bianchi della tradizionale tastiera di pianoforti ed organi, nonché la successione di righe e spazi che costituisce il pentagramma.

 

La scala diatonica prende il nome da uno dei tre generi della musica greca antica (diatonico, enarmonico e cromatico) ed è la base per creare le formule di numerose scale musicali. La sua struttura fu studiata per la prima volta nella Grecia Antica a seguito degli studi della scuola di Pitagora.

 

 

 

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Pitagoras

 

Questa scala all’interno della musica occidentale prende spesso il nome di scala temperata purché il sistema tonale sia precisamente intonato come sistema temperato equabile, se invece si utilizza un’intonazione basata sull’intonazione naturale la scala diatonica prende talvolta il nome di scala naturale (o zarliniana).

 

Le note, o meglio le posizioni lungo la scala diatonica, vengono chiamate gradi della scala: dal primo al settimo.

La scala diatonica è una pietra miliare su cui la storia della musica occidentale si è a lungo sviluppata.

La diatonica maggiore (ovvero di modo maggiore) è detta anche di modo ionico. La diatonica minore (spesso indicata come Scala minore naturale per distinguerla da altre scale alterate ottenute a partire da essa) è costruibile a partire dal sesto grado della maggiore ed è detta di modo eolio.

I Greci avevano sette gamme, o toni, da essi chiamate modi; questi comprendevano due tetracordi separati, ossia otto note, o una estensione d’ottava, e servivano a determinare se non la tonalità nel senso che noi attribuiamo oggi a questa parola, almeno il punto di partenza di ciascun tono o frammento della scala. La scala greca è composta di due tetracordi o congiunti da un tono comune o con un intervallo di un tono intero fra l’uno e l’altro.

 

Due tetracordi formano un’armonia. L’armonia può presentare alcune modalità che sono tante quante le posizioni che assume il semitono all’interno del tetracordo, e più precisamente i sette modi erano i seguenti: lidia (col semitono in prima posizione), frigia (col semitono in seconda posizione) e dorica (col semitono in terza posizione), cui corrispondono le modalità derivate iperlidia, ipolidia, iperfrigia, ipofrigia, iperdorica, ipodorica.

 

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Fig.11: I sette modi dei Greci.

 

Solo i modi maggiore e minore vengono generalmente utilizzati per le tonalità dei brani musicali occidentali, in questo ambito gli altri modi sono utilizzati alcuni solo raramente (come il modo Lidio), e altri praticamente mai (come il modo ipofrigio). Scale di qualsiasi modo sono tuttavia identificabili all’interno della struttura melodica dei brani, ed in particolare un uso peculiare e caratteristico dei modi più disparati è presente nel Jazz, soprattutto nella sua corrente definita per l’appunto jazz modale.

 

Per calcolare i diesis ed i bemolle da inserire in chiave in una qualunque scala diatonica maggiore ci si può avvalere dell’aiuto schematico del Circolo delle quinte, che è un grafico utilizzato nella teoria musicale per mostrare le relazioni tra le dodici note che compongono la scala cromatica.

 

Il metodo di notazione era formato col mezzo di lettere dell’alfabeto distese, capovolte, modificate in vari modi e variava secondo le voci e gli strumenti. L’esecuzione comprendeva la musica vocale accompagnata da strumenti a corda pizzicati (i Greci non conoscevano l’archetto) o da strumenti a fiato. L’antica questione se i Greci abbiano conosciuto l’armonia nel senso moderno della parola sembra essere decisa negativamente.

Questa opinione ormai universalmente accettata, ebbe la miglior conferma nella scoperta (1893) dell’ Inno ad Apollo, trovato a Delfo, probabilmente del II secolo a.C.: esso è inciso su una pietra e contiene oltre al testo anche i segni musicali sopra ogni sillaba, corrispondenti a quelli che abbiamo di Aristosseno. Il suo valore è inestimabile, perchè è l’unico monumento genuino d’importanza, che ci resta della musica greca.

 

Gli altri frammenti conservatici sono i tre inni di Mesomede, pubblicati per la prima volta da Vincenzo Galilei nel Dialogo della musica antica (1581), un frammento dell’Oreste di Euripede, uno scolio scoperto sopra un epitaffio a Tralles e pubblicato nel 1891 da O. Crusius, e altri frammenti quasi indecifrabili scoperti nel 1893 a Delfo insieme con l’inno ad Apollo.

 

Le speranze che si nutrivano, d’aver trovata la chiave della musica greca, furono quasi interamente deluse e bisogna concludere che o noi non siamo capaci di decifrare quei frammenti o il nostro modo di sentire la musica è affatto differente da quello dei Greci.

 

Per avere un esempio di trasposizione sul pentagramma di un documento di musica greca si prenda in considerazione il cosiddetto Epitaffio di Sicilo, il cui testo ci è pervenuto integro, compresa la notazione musicale posta sopra le parole.

Si tratta di un breve testo, databile II-I secolo a. C., iscritto su una pietra tombale con notazione vocale.

Ecco il testo così come ci è pervenuto:

 

Pasqualini - le memorie della musica 2 Img 12

Fig.12: Epitaffio di Sicilo.

 

I quattro versi possono essere resi in italiano in questo modo:
Finché vivi, risplendi
E non addolorarti affatto,
per un breve momento è il vivere,
il tempo reclama il suo compimento.

Si tratta di un brano di genere diatonico al modo frigio.

 

L’intervallo di quarta del tetracordo, cioè, si ottiene qui con distanza rispettivamente di tono, semitono, tono. I due tetracordi disgiunti formano l’ottava completa. Utilizzando come valore assoluto della prima nota il mi, avremo la seguente scala discendente:

mi – re – do diesis – si // la – sol – fa diesis – mi.

 

Il valore delle lettere dell’alfabeto ionico, secondo il sistema di notazione vocale, corrispondente alle note della scala sopra descritta, risulta essere il seguente (tenendo conto che in questo caso l’alterazione è indicata dalla prima lettera del gruppo triadico, la nota senza alterazioni dalla terza e con l‘aggiunta di un segno sussidiario per il mi grave):

 

Pasqualini - le memorie della musica 2 Img 13

Fig.13: Sistema di notazione vocale corrispondente alla precedente scala discendente.

 

Per quanto concerne la durata, essa può essere determinata con esattezza grazie ai segni di superallungamento cui si è fatto cenno, dal momento che essa non corrisponde più alla quantità breve e lunga di ciascuna sillaba. Nel caso di questo documento si arriva fino a valori di tre tempi. Il tempo che si ottiene è di sei ottavi. Si noti anche come su una sola sillaba potevano essere collocate più note (in questo caso fino a tre).

Le indicazioni fornite ci consentono la trascrizione sul pentagramma del brano e la sua esecuzione.

 

 

 

Pasqualini - le memorie della musica 2 Img 14

Fig.14: Trascrizione sul pentagramma dell’Epitaffio di Sicilo.

[Per ulteriori approfondimenti: http://www.simonescuola.it/musike/notazione.htm]

 

Quanto agli strumenti suonati dai Greci, oltre agli strumenti a corda (a pizzico) e a fiato (flauti, clarinetti, trombette, corni) essi ebbero più tardi anche strumenti simili ad organi. Tuttavia gli strumenti più prediletti dai Greci furono però quelli a corda (lira e cetra). Meno amati, e importati dall’Asia Minore, quelli a fiato.

 

Bisogna dire, inoltre, che il susseguirsi dei vari generi portò, a livello musicale, alla creazione di atmosfere sonore sempre più raffinate, ricercate, in alcuni casi cervellotiche.

 

Tuttavia, prescindendo dall’esigenza del bagaglio teorico e speculativo, l’esecuzione musicale ci appare tutt’altro che sofisticata. I due strumenti principali, cui se ne aggiungono pochissimi altri di natura strutturale assai simile, erano, come precedentemente ricordato, l’aulos (uno strumento a fiato) e la lira. Il nomos, ossia il brano musicale, era caratterizzato da poche note, molte delle quali rappresentavano un ritorno alla tonica, muovendosi per lo più su gradi congiunti, senza mai smarrirsi in grandi salti d’intervallo. Ritmicamente, il nomos si presentava debole, flebile, con lunghi e pochi accenti, permettendo così una languida distensione dei sensi che talvolta, come già detto, poteva indurre a stati d’estasi.

 

Nella storia della musica occidentale moderna, quella greca occupa un posto preponderante: dal genere diatonico si sono ricavati i modi maggiore e minore le cui scale, fin dalla metà del Settecento, costituiscono uno dei pilastri fondamentali della nostra musica.

 

Se la musica classica, però, sul piano pratico e compositivo ha risentito debolmente delle influenze musicali prettamente greche, nell’ambito del rock strumentale e del chitarrismo ipertecnico, sviluppatosi a partire dagli anni Novanta, le scale modali, desunte dai modi greci, hanno saputo fornire un valido appoggio, soprattutto in fatto di originalità, a musicisti del calibro di Steve Vai, Joe Satriani, John Petrucci (Dream Theater) che rappresentano a buon diritto la più alta espressione della chitarra negli ultimi dieci anni, in tutto il suo buon gusto e virtuosismo.

 

Per ascolti e info


 

email: sophoshiend@gmail.com


Bruno Fazzini – tel. + 39 347  1402138







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di Barbara Pasqualini

 


 

Barbara Pasqualini

Barbara Pasqualini – Esperta di storia e cultura della musica.

Si è laureata in Scienze Biologiche presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo nel 2004 e dal 2005 al 2008 ha lavorato presso il Dipartimento di Agrobiologia ed Agrochimica della medesima Università, ove ha conseguito un Dottorato di Ricerca in “Genetica e Biologia cellulare”. Al suo attivo ha una pubblicazione scientifica nella branca dell’Epigenetica.

Successivamente è tornata al suo atavico amore, la letteratura, pubblicando nel 2012 il suo romanzo d’esordio: “All’alba, una pioggia di stelle”, Albatros editore. Sta per uscire la sua seconda opera.

Ha sempre coltivato con entusiasmo la sua passione per la musica, sia studiando pianoforte, sia dedicandosi ad approfondire le proprie conoscenze relative al settore della storia della musica nel corso dei secoli.

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