La chitarra elettrica “vintage” -1° parte
By Fabio Antonio Calò
Introduzione
“Ma è vintage o semplicemente vecchia?”
La chitarra elettrica “vintage” 1° parte . La domanda potrebbe apparire provocatoria per alcuni e pleonastica per altri.
Ebbene oggi i giovani musicisti, che si avvicinano al meraviglioso mondo -per certi versi ancora scoprire – della chitarra elettrica, cadono in balìa delle tendenze del momento o ancor peggio delle opinioni “esperte” di chi, come il sottoscritto, scrive in rete e su carta stampata.
C’è chi spende felicemente qualche migliaio di euro per una Gibson Historic e chi addirittura oltre venti mila per una Billy Gibbons Signature anticata in serie limitata, sostenendo che la qualità di questi oggetti sia pari a quella degli strumenti prodotti negli anni ’50, adducendo “prove a confronto” che dimostrerebbero quanto da quegli anni provengano in fondo soltanto miti e leggende. C’è chi al contrario giura che una chitarra, poiché “vintage”, debba suonare necessariamente molto meglio di una moderna, solo in quanto l’invecchiamento dei materiali non possa che averne migliorato le qualità.
Ebbene cercheremo, per quanto ci sia possibile, di far un po’ di luce sulla questione.
Va detto innanzitutto che buona parte dei recensori “esperti” non ha mai provato una Les Paul Standard del ’59. Non l’ha mai nemmeno toccata ma al massimo vista in fotografia e pertanto si basa su altrettanti commenti letti in rete o acquisiti da musicisti più “vintage”, i cui capelli bianchi ne avrebbero attestato l’attendibilità.
Si perché quella chitarra è…quella chitarra in particolare poi è…indescrivibile!
Come si descrive un qualcosa che è talmente al di sopra di tutte le altre da non essere nemmeno più considerabile come “chitarra” bensì più similmente ad un… “pianoforte”?
In assoluto la chitarra riuscita meglio nella storia della grande liuteria,
in grado di regalare delle emozioni, delle sensazioni così forti da ispirare il musicista al punto tale da non riconoscere più nemmeno se stesso mentre suona ma dargli come la percezione di…“essere suonato”: che vi sia una qualche altra entità divina che in quel momento stia suonando la sua anima, il suo corpo e infine quella “chitarra”.
Ma tornando invece a confronti più terreni, occorre specificare che uno strumento di varie decine d’anni, perché sia valutato e paragonato, deve essere tecnicamente privo di difetti per quanto riguarda legni (esenti da crepe, rotture, riparazioni), meccaniche (tasti, capotasto, truss rod, tailpiece/ABR/tremolo system, sellette) ed elettroniche (switch, potenziometri, pick-up). Invece la maggior parte degli strumenti d’epoca che mi sono capitati per le mani erano in condizioni mediocri o abbisognavano quanto meno di un’accurata messa a punto.
D’altra parte c’è da dire che tutto ciò che fu realizzato nel passato aveva in qualche modo qualcosa che oggi definiamo “magico”. Perché? Perché allora si costruiva con altro approccio, altra passione per l’oggetto, che quasi si maneggiava come se gli si dovesse donare Vita: con il tempo necessario, con la calma, col dovuto rispetto e l’amore che si dà ad un bimbo affinché cresca forte, sano e bello. Esso, dallo strumento musicale all’elettrodomestico, era realizzato per dare il massimo a lungo, magari per sempre, e qualora rotto potesse essere riparato. Inutile dire, perché sotto gli occhi di tutti, che oggi non sia più così, essendo non solo la qualità dei componenti ma anche la cura nella costruzione di gran lunga inferiore e spesso affidata a macchine automatiche.
Non intendo in questa sede
entrare nel merito del perché siamo arrivati a tale situazione ma solo osservare che uno strumento musicale quanto un amplificatore hi-fi di allora – ad esempi una Les Paul del ’59 quanto un trasformatore Western Electric – possiedano una musicalità di gran lunga superiore a quella di uno realizzato oggi.
Scriverò d’ora in anzi soltanto degli strumenti musicali ma, ripeto, il concetto si applica un po’ a qualsiasi cosa sia stata realizzata in quegli anni.
LA TECNICA
Ci sono dunque molti aspetti che contraddistinguono uno strumento musicale “d’annata” e vedremo di annoverarne i principali.
La scelta dei legni era di estrema qualità, oggi nemmeno lontanamente paragonabile. Il mogano Honduras usato negli anni ’50 proveniva da un solo tipo di pianta particolare di cui soltanto la parte più alta veniva utilizzata, dalle caratteristiche porosità riscontrabili esclusivamente sugli strumenti di quegli anni.
Il palissandro della tastiera era brasiliano e di un particolare tipo molto scuro e duro, dalle caratteristiche sonore calde e definite, al contrario dell’indiano o africano usato dagli anni ’60 ad oggi, dal suono molto più asciutto ma dall’attacco più lento. Inoltre il manico veniva incastrato con un tennone lungo dentro il corpo, anziché corto come usarono fare più tardi ottenendo una stabilità e quindi una risonanza inferiore: l’obiettivo era, allora più oggi, la massima risonanza.
Ma vi è un aspetto di primaria importanza, ben noto a chi costruisce strumenti musicali in legno e molto meno a chi li utilizza: il suddetto approccio “amorevole”.
Ebbene un liutaio che abbia sperimentato la realizzazione davvero senza compromessi di un violino a mano e poi ne abbia costruiti altri a macchina, vi potrà testimoniare che nessuno strumento nato da una fresa CNC in dieci minuti avvicina nemmeno lontanamente il suono di quello fatto a mano! Bisogna chiedersi il perché, cercando forse le risposte nella fisica quantistica se non addirittura su piani più esoterici: quella cura, quell’amore che si dona allo strumento in qualche modo viene “assorbito” dalla pianta, dal legno che in qualche modo si muove, respira, vive ed è in grado di raccogliere il “messaggio” di chi lo lavora.
Così si costruiva negli anni ’50,
quando non si badava ai tempi di consegna, alla quantità, al profitto bensì alla qualità innanzitutto, che significava appunto amare lo strumento, scolpirlo a mano fino a dargli forma, levigandolo e “accarezzandolo” per giorni e giorni. In ognuno di quegli strumenti c’era la vita, l’anima del liutaio che lo aveva “partorito”.
La colla usata allora era di tipo animale, spesso di pesce o coniglio, estremamente critica da usare – a caldo – poiché facilmente creava bolle d’aria. Tale colla penetra nel legno fino a sparirci dentro (ecco perché definita “hide glue”, colla nascosta), facendone divenire le parti a contatto simili al vetro: commettere un errore nella fase di incollaggio significava buttar via tutto.
Ma proprio questa caratteristica di sparire dentro al legno, facendolo divenire vetroso, faceva sì che il legno risuonasse molto di PIU’ una volta incollato. Ma questo sistema fu abbandonato già negli anni ’60, a favore di colle plastificanti, gommose, che appunto invece smorzavano le risonanze anziché amplificarle! E infatti basta suonare DA SPENTI gli strumenti delle due annate differenti per notarne subito le differenze disarmanti.
Gli strumenti degli anni ’50 avevano sia il corpo che i manico in pezzo unico,
mentre gli strumenti già di qualche anno dopo furono costruiti in più pezzi, incollati come sopra, e perciò sempre più “bloccati” e gommosi nella sonorità.
La verniciatura delle chitarre era allora una vera e propria opera d’arte. La qualità stessa del tipo di vernice alla nitro aveva una composizione chimica molto meno sintetica di quella utilizzata più avanti. Inoltre la verniciatura avveniva in più fasi, molto dilatate nel tempo, e la vernice era data in quantità molto ridotte affinché il legno la assorbisse gradualmente e ci si adattasse, continuando a vivere, muoversi e stagionare sotto di essa.
Passavano mesi tra una mano e l’altra di vernice che, leggerissima, creava quelle crepe e imperfezioni che in realtà erano “perfezioni”, in quanto era attraverso di esse che il legno “respirava”! Già dai primi anni ’60, la tecnica cambiò radicalmente: si verniciò in tempi sempre più ristretti tra i vari stadi, utilizzando nitro sempre più spessa e resistente che di certo proteggeva maggiormente l’estetica dello strumento ma ne bloccava di molto la risonanza e ne impediva la possibilità di invecchiare.
I pick-up erano avvolti a mano
e con delle tecniche acquisite con lunghe prove d’ascolto, oggi andate ormai perdute: sia i single-coil Fender e Gibson (P-90 dog-ear o soap-bar dei primi anni ’50) che i PAF Gibson di fine anni ’50.
Fatti a macchina o a mano, quelli attuali non riescono ad avere le stesse sonorità.
Questo NON perché non hanno ancora perso la risposta in frequenza più estesa in alto come invece avrebbero fatto quelli vecchi secondo gli esperti della rete, ma perché quelli anni ’50 hanno quel tipo di avvolgimento apparentemente irregolare e casuale ma invero realizzato con tecniche segrete molto particolari e precise.
Queste tecniche erano frutti di lunghi anni di prove, passione e sudore: ognuno di quei pickup ha un suono diverso dall’altro ma tutti, proprio tutti hanno in comune una caratteristica, una “magia”, una ricchezza armonica nelle medie frequenze che manca già nei pickup successivi fino a sparire completamente in quelli attuali.
Vedasi il valore non solo collezionistico raggiunto dai cosiddetti “bianchi” e “zebra”, i pick-up bianchi e bianconeri prodotti solo nel’59, l’anno d’oro dell’intera produzione Gibson. Quegli oggetti avevano ed hanno ancora una sonorità di gran lunga superiore: ecco perché Jimmy Page e Robert Fripp montavano uno zebra al manico della loro Les Paul Black Beauty del ’60.
Già allora ne era evidente la superiorità
sonora rispetto ai normali PAF neri. Invece, sulla sua Standard del ’59, Jimmy sostituiva il pickup originale bianco al ponte con un PAF nero del ’58 (dalle sonorità più scure e corpose) lasciando il bianco originale al manico (dal suono più definito, scoppiettante e tintinnante) e alternandolo con uno zebra (dal suono più equilibrato, con la corposità del nero e la definizione del bianco).
A proposito del dilemma bobina singola o doppia,
il single-coil ha rispetto al PAF un’uscita molto meno potente, un’estensione di banda passante cioè una gamma di frequenze riprodotte inferiore e una rumorosità intrinseca superiore. Sembrerebbe quindi che il PAF sia superiore da tutti i punti di vista ma in effetti non è affatto così, poiché due bobine insieme in controfase cancellano si molto rumore ma anche molte seconde armoniche.
Infatti il PAF ha più attacco, suona più silenzioso, più grande e grosso, riproduce più fondamentali ma meno armoniche, il che si traduce in meno calore e colori nelle medie frequenze e rende il suono distorto più fuzzoso. Qual è quindi meglio? Quello più indicato per il genere o per il brano che si suona! Personalmente ritengo che il single-coil non abbia rivali sul suono pulito e anche fino ad un overdrive morbido, molto bluesy e affatto fuzzy. Poi, da un distorto crunch fino ad un high gain più cattivo e moderno, il PAF è imbattibile.
Fine 1° parte
Fabio Antonio Calò
“Ha lavorato per oltre vent’anni come pilota di aeroplani presso note compagnie nazionali e internazionali, nelle quali è stato dirigente, responsabile della sicurezza, istruttore ecc. Progetta e realizza componenti elettronici hi-end senza compromessi col suo marchio LuxSapienti. Pluristrumentista e compositore, è il cantante e chitarrista della band “Egonon”, di cui è in uscita il secondo lavoro discografico. Possiede una notevole collezione di Chitarre e amplificatori vintage, oltre a quelli costruiti da lui stesso.”
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